Gli alloggi a prezzi accessibili sono limitati e difficili da trovare, soprattutto per le persone con un passato migratorio. L'alloggio, tuttavia, non rappresenta l'unico elemento determinante per la qualità di vita e la partecipazione: anche l'ambiente sociale che lo circonda riveste un ruolo fondamentale. Come integrazione, pianificazione territoriale e politiche abitative si intrecciano – e cosa serve per sentirsi a casa nella nuova realtà.
Una casa è molto più di quattro pareti con un tetto. Per la stragrande maggioranza rappresenta il punto di riferimento della propria vita. Un porto sicuro in cui trovare tranquillità, un luogo di sicurezza e intimità, ma anche uno spazio di incontro, un luogo in cui si condividono i pasti, si raccontano storie, si iniziano e si concludono nuovi capitoli di vita. Ciò non accade sempre: chi non vive in ambienti simili, ma anzi in spazi ristretti e rumorosi o con poca privacy avverte queste limitazioni in quasi ogni ambito della vita. Per le persone con un passato migratorio l'alloggio è uno dei fattori chiave nel percorso d'integrazione, in grado di aprire porte o di tenerle chiuse. Eppure la questione solo raramente viene messa al centro del dibattito pubblico sull'integrazione.
Ricerca di una casa
Tra coloro che continuano a far notare l'importanza del fattore abitativo c'è Rebekka Ehret, etnologa presso la scuola universitaria di Lucerna e professoressa di lavoro sociale presso l'Istituto per lo sviluppo socioculturale. «L'integrazione avviene negli spazi abitativi, ossia laddove le persone si incontrano, lavorano, vanno a scuola e di fatto abitano.» I luoghi di incontro in cui gruppi diversi condividono la vita quotidiana avrebbero perciò un potenziale particolarmente elevato per fare da spazi sociali di connessione, ammesso che le condizioni quadro siano adeguate. E lo sono? Le cifre dall'Ufficio federale di statistica sollevano i primi interrogativi in relazione alle condizioni abitative della popolazione straniera. Si evince che le persone con un passato migratorio pagano in media il 10% in più di affitto per metro quadrato, con arredi spesso peggiori. Inoltre per queste persone la superficie abitativa media per persona è nettamente inferiore alla media. Se in Svizzera la media pro capite è di 47 metri quadrati di superficie abitativa, le persone di questo gruppo si trovano spesso a vivere con meno di 20 metri quadrati ciascuna. Questo per quanto riguarda i numeri. Abitare è però anche una questione profondamente emotiva. «L'intimità di un luogo e di ciò che lo circonda non nasce automaticamente, ma cresce con il tempo attraverso piccole pratiche quotidiane e il senso di sicurezza interpersonale», afferma Ehret. Chi vive in condizioni abitative insoddisfacenti o è costretto a trasferirsi continuamente fa fatica a sentirsi a casa e rimane estraneo non solo agli altri, ma anche a se stesso. «Le conseguenze negative si ripercuotono su tutta la famiglia, sullo sviluppo dei bambini, sulla formazione e sulla carriera professionale, sulla salute mentale e infine anche sull'integrazione», afferma la ricercatrice.
Nient'altro che risposte negative
Azeb Abay lo sa fin troppo bene. La donna originaria dell'Eritrea vive a Coira da oltre dodici anni. Lavora a tempo parziale ed è una madre sola con quattro figlie di età compresa tra i 9 e i 16 anni. Qualche tempo fa le è stato disdetto il contratto d'affitto del suo appartamento. Per ora l'attuale locatore tollera la famiglia, ma non investe più nulla nella manutenzione dell'appartamento. Per questo la quarantenne è da tempo alla disperata ricerca di una nuova casa, finora senza successo. «Ho risposto a più di un centinaio di annunci», racconta. «A volte non ricevo nessuna risposta. Oppure mi dicono: “Purtroppo abbiamo già trovato qualcuno”». La situazione abitativa è precaria, la luce in cucina non funziona da settimane. Le stanze sono umide e in alcuni punti addirittura l'acqua gocciola. Tutto è arredato in modo provvisorio. Come essere in un limbo. «A complicare ulteriormente queste condizioni si aggiunge il fatto che mia figlia più giovane ha problemi di salute», racconta Abay con amarezza. Le bambine si vergognano di invitare a casa le loro amiche.
L'esperienza della famiglia Abay è la dimostrazione che, nonostante un'intensa ricerca, molti non riescono proprio a trovare una nuova casa. «Molte persone in cerca di un alloggio hanno difficoltà, indipendentemente dal passato migratorio», sottolinea Rebekka Ehret. Tuttavia, Ehret indica dei fattori aggiuntivi che aggravano la ricerca di un alloggio per queste persone, come ad esempio la discriminazione, che avviene per lo più in modo silenzioso, ma sistematico. Ehret la chiama «esclusione strutturalmente radicata». In effetti, la ricerca mostra che le persone con nomi che suonano stranieri, con più figli o con un percorso lavorativo che non corrisponde a quello classico svizzero ricevono più spesso risposte negative. «A volte basta anche il minimo accenno dell'origine e il dossier viene messo da parte», afferma l'etnologa. Particolarmente colpite sono le donne migranti sole. «Chi ha molti figli è considerato rumoroso. Chi è solo, un rischio finanziario. Chi è entrambe le cose viene immediatamente escluso». Allo stesso tempo, sono proprio le persone socialmente ed economicamente più svantaggiate che necessitano di condizioni abitative stabili per poter andare avanti.
Mancanza di dialogo
Molti locatori e locatrici sono diffidenti nei confronti di potenziali inquilini o inquiline con una storia di migrazione. Questa posizione è basata spesso su generalizzazioni o su singole esperienze negative, ad esempio in relazione a possibili arretrati nei pagamenti, conflitti dovuti al rumore o a un presunto sovraffollamento dell'abitazione. La maggior parte negherebbe un razzismo palese, sostiene Ehret, «ma la discriminazione avviene comunque». Secondo lei ciò potrebbe essere contrastato da campagne informative mirate, offerte di mediazione a bassa soglia o strumenti come le garanzie di affitto. «Ho in mente delle idee per stabilire un dialogo tra tutte le parti interessate». Ma finora né l'Associazione svizzera dei proprietari fondiari né Casafair, l'associazione dei proprietari attenti all'ambiente e alle relazioni sociali, hanno manifestato interesse a un confronto consapevole. «Finché il mercato immobiliare saturo giocherà economicamente a loro favore non avvertiranno nessuna urgenza», sospetta la ricercatrice. Ciò non è sicuramente nell'ottica dell'interesse generale. Questa discriminazione può avere conseguenze per generazioni. «Se come famiglia ho l'impressione di non riuscire ad andare avanti a causa del mio nome, del colore della mia pelle o del numero di figli, questo può portare alla rassegnazione, mi ritiro e partecipo meno attivamente alla vita sociale», spiega Ehret. Gabi Stoffel di Caritas Grigioni conosce queste sfide. Su incarico dell'Ufficio cantonale del servizio sociale, cerca alloggi per persone rifugiate che in aggiunta beneficiano dall'aiuto sociale. «Molti vorrebbero vivere a Coira e nei dintorni, ma qui gli alloggi a prezzi accessibili sono particolarmente scarsi», spiega Stoffel. La regione è così popolare perché in città si può costruire sulle reti esistenti e le strutture per l'integrazione sono particolarmente numerose, con corsi di lingue, offerte culturali e di incontro nonché posti di formazione e di lavoro. In cambio alcuni sarebbero disposti addirittura a vivere in «un buco» a Coira, anziché più lontano, in un appartamento più accogliente allo stesso prezzo.
Città o zona rurale?
In linea di principio, però, le esigenze sono tanto diverse quanto lo sono le persone stesse (cfr. p. 10). «Recentemente mi sono recata a Flims con un giovane proveniente dall'Afghanistan per la visita di un appartamento. Era entusiasta del paese, della natura, della tranquillità, dell'aria fresca», racconta Gabi Stoffel. Questa flessibilità è importante, soprattutto per i giovani che preferiscono vivere in città. I minori di 25 anni ricevono sussidi di assistenza per l'alloggio nettamente inferiori. «La regolamentazione parte dal presupposto che potrebbero vivere con i genitori», afferma Stoffel, «solo che di solito i rifugiati si trovano qui senza di loro». Per le persone che percepiscono aiuto sociale per gli affitti valgono in linea di principio dei limiti massimi ben definiti. «In molte regioni è quasi impossibile trovare qualcosa di ragionevole entro questi limiti», spiega Stoffel. Trasferirsi per questo motivo in una regione isolata sarebbe teoricamente possibile, ma non sempre sensato quando ciò comporta l'allontanamento dei bambini dal loro ambiente scolastico e sociale. Oppure quando è già stato trovato un lavoro o un posto di formazione. Lo stesso vale per la famiglia Abay, per la quale Stoffel nel frattempo ha assunto l'onere della ricerca di un appartamento, offrendole così un importante sollievo.
Pianificazione attiva dello sviluppo
Oltre che in regioni urbane come Coira, la ricerca di un alloggio è particolarmente ardua in centri turistici come Davos, Arosa o Pontresina. In queste località persone con un reddito locale si trovano in competizione con chi ha grandi redditi e arriva da fuori Cantone, per abitazioni che spesso vengono utilizzate solo come residenza secondaria. Dato il carattere critico della situazione, nel giugno di quest'anno il Cantone dei Grigioni ha approvato una nuova legge concernente la promozione degli alloggi. Questa legge non colma soltanto lacune puntuali, bensì provvede a sgravi in modo sistematico attraverso mutui a interesse favorevole per committenti di immobili di utilità pubblica, sostegno mirato per famiglie che si trovano in condizioni finanziarie modeste nonché attraverso un maggiore coordinamento regionale. Marcus Caduff, Presidente del Governo e direttore del Dipartimento dell'economia pubblica e socialità, parla di una «spinta necessaria per offrire alloggi a prezzi accessibili».
Questo passo è parte integrante di tutta una serie di misure che la geografa sociale Marika Gruber sottolinea nell'intervista a MIX sul tema del contesto abitativo (p. 12). Gruber difende una pianificazione dello sviluppo completa e previdente. Il programma federale «Projets urbains» ha sperimentato come ciò potrebbe essere fatto con dei progetti in quartieri con un elevato tasso di migrazione a Pratteln (BL), Vernier (GE), Olten (SO) o Rorschach (SG). Il risultato: l'integrazione risulta particolarmente duratura laddove la pianificazione del territorio, la politica abitativa e sociale, la formazione e la sicurezza sono strettamente coordinati dalle autorità. Decisivo è il coinvolgimento attivo della popolazione. «L'integrazione non è legata a un luogo, ma ha successo soprattutto laddove la partecipazione è possibile», afferma anche Rebekka Ehret. Ciò include la creazione o la promozione di strutture di dialogo pubbliche e luoghi di incontro. Nelle città questa funzione viene assunta ad esempio dai servizi di coordinamento dei quartieri. Essi sostengono gli e le abitanti di un quartiere accogliendo le loro richieste, promuovendo la creazione di una rete di contatti e intervenendo nella progettazione del quartiere. In particolare, garantiscono la presenza di punti di contatto tra la popolazione e l'amministrazione cittadina o la politica e partecipano ai progetti di pianificazione. Nei villaggi le persone si conoscono più facilmente e parlano tra loro. In questi casi, questo compito viene spesso assunto da persone chiave impegnate socialmente, come politici e politiche o pastori e parroci. Ad ogni modo: «Se gli inevitabili processi di cambiamento a livello sociale nel contesto abitativo, come la migrazione, non sono legati alla partecipazione e alla possibilità di pronunciarsi, i residenti possono vederli come un atto di esclusione, anche se non lo sono. Nei Grigioni l'esclusione avviene soprattutto da parte di facoltosi proprietari di abitazioni secondarie», sottolinea l'etnologa.
Chi si somiglia si piglia?
È diffusa l'ipotesi secondo cui i e le migranti tendano a «isolarsi» consapevolmente attraverso il loro comportamento abitativo. In effetti, molti cercano in modo mirato un ambiente abitativo in cui vivono già dei connazionali, «non per isolarsi, ma perché queste reti li aiutano al loro arrivo e a integrarsi», spiega Rebekka Ehret. Soprattutto per le persone arrivate da poco in una zona, la vicinanza a conoscenti offre sicurezza nel nuovo sistema, dove lingua e abitudini non sono familiari. «È un fenomeno che si osserva in tutti i gruppi sociali», spiega la ricercatrice, «anche molti svizzeri preferiscono luoghi di residenza dove incontrano persone affini. Che si tratti dell'ambiente benestante della Goldküste zurighese, della tranquillità della campagna o della collegialità di una cooperativa di abitazione, le persone spesso si orientano verso stili di vita che corrispondono alle loro aspettative».
Questa forma abitativa comunale volontaria si distingue dalla segregazione forzata, cioè dall'addensamento spaziale dovuto a discriminazione o alla mancanza di mezzi finanziari. «In Svizzera questi addensamenti non si sviluppano secondo l'appartenenza etnica, bensì secondo la classe sociale», spiega Ehret. A causa della situazione finanziaria o dello status sociale, persone i cui diplomi professionali del loro paese d'origine non vengono riconosciuti oppure persone con un basso livello di istruzione, lavoratori non qualificati, persone con un reddito basso e colpite dalla povertà, spesso persone che hanno un passato migratorio, raramente hanno la possibilità o il margine di manovra finanziario necessario per poter scegliere liberamente il loro luogo di residenza. «Molte persone in queste situazioni vorrebbero tanto vivere in quartieri o complessi residenziali socialmente più diversificati», sottolinea Ehret. «La maggior parte di loro è migrata proprio perché desiderava scoprire nuove possibilità e prospettive e staccarsi da strutture sociali ristrette». Nonostante casi sporadici, il fatto che in Svizzera non si verifichino situazioni simili a ghetti, come in alcune città e località della Germania, della Francia o dell'Inghilterra, è dovuto soprattutto all'organizzazione federalistica della politica e dell'economia. Le sue dimensioni ridotte favoriscono un buon sistema di distribuzione di richiedenti l'asilo, come ad esempio il sistema di assegnazione secondo il numero di abitanti dei Cantoni.
Volti raggianti
Ciò considerato, nonostante tutte le sfide bisogna anche ricordare che «di regola le persone del nostro Paese, sia nei loro quartieri sia nei villaggi, vivono e convivono pacificamente, insieme o fianco a fianco», afferma Ehret. Di solito, anche Gabi Stoffel rientra a casa con emozioni positive. «Il mio lavoro è molto arricchente. Mi aiuta sempre a tornare coi piedi per terra». «La cosa più bella sono i volti raggianti delle persone quando arrivano con borse e valigie e si trasferiscono nella loro nuova casa dandole vita», afferma. Si sta impegnando al massimo affinché anche Azeb Abay e le sue figlie possano presto vivere un nuovo inizio.
Testo: Philipp Grünenfelder